E se improvvisamente alcuni membri della vostra famiglia dovessero sparire, vittime di un tragico omicidio di cui non sono stati ritrovati i corpi, come reagireste? Ma soprattutto, se questi familiari fossero degli abilissimi performer, i quali hanno dedicato una vita intera al camuffare la verità e giocare tra realtà e apparenza, credereste davvero all’omicidio o puntereste il tutto e per tutto su un nuovo gioco di prestigio?
Questo è ciò che si domandano Annie e Baxter, figli della famosa coppia di performer Caleb e Camille Fang, protagonisti del nuovo film dell’attore e regista Jason Bateman, La Famiglia Fang.
Tratto dall’omonimo romanzo di Kevin Wilson, La Famiglia Fang è un ironico e cinico film tra realtà e apparenza, legami e famiglia, in cui tutto ciò che viene mostrato sullo schermo è continuamente messo in discussione, lanciando la sfida al pubblico di trovare la verità riuscendo, però, ad andare oltre l’apparenza oggettiva dei fatti.
Il cinema ha da sempre giocato sul filo del rasoio tra realtà e apparenza, mescolando le carte in tavola e sfidando il pubblico a vedere oltre l’immagine filmica.
Ora ho delle idee sulla realtà, mentre quando ho cominciato avevo delle idee sul cinema. Prima vedevo la realtà attraverso il cinema, e oggi vedo il cinema nella realtà.
Disse un giovane Jean-Luc Godard in un’intervista del 1964, quando la nouvelle vague era nel fiore della sua più magnifica espressione.
In realtà, scavando molto più in là nella storia umana, possiamo trovare questo concetto già all’interno de Il Mito della Caverna di Platone, il quale tenta di dimostrare agli uomini, prigionieri di un mondo definito da elementi sensibili e contingenti, che la realtà va ben oltre quella soggettiva alla quale sono incatenati. Platone sprona l’uomo ad andare oltre l’apparenza del mondo sensibile e concentrarsi su ciò che c’è dietro.
Ricordate la famosa scena di Labyrinth, straordinaria pellicola cult del 1986 diretta da Jim Henson con David Bowie e una giovanissima Jennifer Connelly, in cui Sarah si ritrova nel labirinto per raggiungere il castello di Jareth, ma le sembra che il labirinto vada unicamente in una direzione? Lo sguardo di Sarah è rivolto, paradossalmente in questo caso, unicamente nel senso soggettivo del labirinto.
Solo l’incontro con un simpatico vermino le farà capire che lì dentro nulla è come sembra è che le prospettive possono essere molteplici; infatti, i muri del labirinto, se visti in un’ottica differente, hanno molteplici svincoli e non vanno di certo in unico verso.
Il senso dell’andare oltre la visione sensibile è proprio questo e l’idea di una realtà artefatta o virtuale è un tema che è stato molto affrontato nel cinema, così come anche nella letteratura, e non solo in ambito fantascientifico.
L’atto stesso della proiezione cinematografica è una realtà virtuale, apparente, in quanto proietta la nostra mente stessa su ciò che stiamo vedendo.
Caleb e Camille Fang hanno fatto della loro vita un gioco costante tra realtà e apparenza, sempre nel sacro nome dell’arte, arrivando a toccare limiti piuttosto grotteschi che hanno da sempre lasciato molto divisa la critica di quel periodo moderno sulla performing art a cui fanno riferimento. Un’esistenza contraddistinta tra l’apparire e l’essere, volto e maschera, elementi che ritroviamo tranquillamente anche nella letteratura stessa.
Un esempio, in questo caso, è Luigi Pirandello che ha saputo anticipare, con il suo pensiero poetico basato sul contrasto tra forma e vita, di moltissimi decenni, ciò che siamo abituati noi stessi a vivere ogni giorno sulla nostra pelle.
L’avvento della tecnologia ha assottigliato ancora di più quella linea di distinzione tra realtà e apparenza, rendendo sempre più difficile capire la natura delle due forme; comprendere la realtà che noi vogliamo vedere, quella soggettiva e sensibile di cui parla Platone, e la realtà oggettiva con le sue molteplici declinazione che si forma davanti a noi.
Vediamo, però, come il cinema è riuscito a interpretare questo concetto nella sue più diverse forme, dalla vita quotidiana ai rapporti personali, passando per i rapporti politici e la smania di potere, per arrivare a toccare sfumature che giocano più su un ordine superiore delle cose attraverso la continua distinzione, sempre più difficile, tra bene e male.
Blow Up
Michelangelo Antonioni, 1966
Il tema tra realtà e apparenza non è certo casuale nella cinematografia di Antonioni. È un elemento che possiamo trovare in qualsiasi suo film, trovando la sua massima espressione in ogni sua chiusura metaforica.
Blow Up gioca un ruolo fondamentale ancora oggi, risultando un film attualissimo. Sebbene rispetto al ’66 ne sappiamo decisamente di più sul ruolo dei media, capace di distorcere totalmente la realtà, Blow Up riesce a essere ancora adesso metafora di un’esistenza filtrata dall’obbiettivo di una reflex, esattamente come nel caso del suo protagonista. Un’apparenza cinica, mostruosa, che rende l’uomo freddo dinanzi a tutto.
Antonioni con questa pellicola riflette sull’isolamento all’interno della società dell’uomo e sulla sua totale impotenza di fronte alle manipolazioni della realtà da parte di tutti quegli strumenti di cui si circonda.
Il pasto nudo
David Cronenberg, 1991
Tratto dall’omonimo romanzo dello statunitense William S. Burroughs, Il Pasto Nudo è un’opera visionaria in perfetto stile Cronenberg. Una pellicola allucinogena in cui lo spettatore è “vittima” dello stesso delirio mentale del suo protagonista, Bill Lee (Peter Weller).
Qui siamo su in livello di realtà e apparenza veramente altissimo. Sebbene le allucinazioni di Bill siano spesso accompagnate da visioni grottesche e irreali, ci sono diversi momenti della pellicola in cui difficilmente si potrà distinguere la realtà dalla finzione.
Cronenberg porta nuovamente sullo schermo le ossessioni visive, il mescolamento tra corpo e macchina, approfondendo la questione del potere della mente e fin dove l’uomo, uscendo dalla sua caverna, può spingersi andando ben oltre la realtà apparente.
The Game
David Fincher, 1997
Quando parliamo di realtà e apparenza, impossibile non citare lo statunitense David Fincher, il quale su questo binomio ha costruito un vero e proprio patrimonio cinematografico.
Nei miei film le parole mentono sempre.
Fincher da sempre costruisce pellicole in cui immagini e parole non sono mai ciò che sembrano, giocando con la mente e la curiosità dello spettatore, portandolo oltre l’oggettività visiva. Assoluto esempio è The Game, film che si muove sulla trasformazione del mondo concreto in qualcosa in sospensione tra realtà e finzione.
In questo film, interpretato da un bravissimo Michael Douglas e Sean Penn, lo spettatore stesso, nei momenti di tensione più alta, viene trasportato nei panni del protagonista, vivendo “in prima persona” il rebus sfrenato che quel gioco privo di regole gli pone di fronte.
Non è sicuramente la miglior pellicola girata da Fincher, ma riflette moltissimo sullo stato di noia e sterilità della vita. Quando il troppo non è mai abbastanza e si finisce per volerne sempre di più, ancora di più, dimenticando totalmente il confine tra realtà e apparenza.
The Truman Show
Peter Weir, 1998
In questa selezione cinematografica, impossibile non citare The Truman Show di Peter Weir, pellicola ormai cult e che meglio affronta, da un punto di vista interiore dell’essere, la questione realtà e apparenza.
La vita di Truman è fin da sempre stato solo questo: mera apparenza. Una realtà costruita sullo sfondo di telecamere accese 24h su 24h, dove tutto il mondo è attore e spettatore, mentre l’unico a essere ignaro del terribile tranello è proprio il protagonista Truman, interpretato da uno straordinario Jim Carrey.
La pellicola è uno squarcio sulla ribellione, sulla capacità del pensiero di essere libero andando contro i limiti imposti da una società deviata e manipolata dall’occhio della telecamera, il brivido del successo.
Truman ha vissuto parte della sua vita credendo a una realtà inesistente. Prendendo per reale e concreto perfino gli avvenimenti più bizzarri che gli si sono presentati di fronte, riuscendo solo sul finale a comprendere la vera natura della realtà. Andando oltre i figuranti e i set allestiti, Truman trova il coraggio di sfidare quel “mare in tempesta”, per poter cominciare a vivere la sua reale esistenza.
Caso mai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buonasera e buonanotte!
Fight Club
David Fincher, 1999
Ritorniamo su David Fincher, questa volta con un film che ha fatto storia, tratto dall’omonimo libro di uno degli autori più controversi della nostra letteratura contemporanea, Chuck Palaniuk.
Fight Club è sicuramente tra gli esempi perfetti di mescolamento tra realtà e apparenza, mostrandoci perfettamente quello che è il disagio dell’uomo di oggi, incapace di sottrarsi dall’alienazione di un mondo che lo trattiene a sé, incastrandolo inevitabilmente.
Ed è proprio questa repressione sociologica che spinge il suo protagonista senza nome (Edward Norton) a sfogare la sua frustrazione sull’immagine idilliaca di Tyler (Brad Pitt). Due facce della stessa medaglia. Ma cosa succede quando una prende il sopravvento sull’altra, a tal punto da riuscire a condizionare per sempre la propria esistenza?
Sia Fincher che Palaniuk creano un mix perfetto in sospensione, dove lo spettatore scopre assieme al protagonista stesso quale sia l’apparenza e dove sia, invece, la realtà, restandone profondamente sconvolto.
Matrix
Lana e Lily Wachowski, 1999
È la tua ultima occasione, se rinunci non ne avrai altre. Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quant’è profonda la tana del Bianconiglio. Ti sto offrendo solo la verità, ricordalo. Niente di più.
La scelta posta da Morpheus (Laurence Fishburne) a Neo (Keanu Reeves) nel capolavoro fantascientifico delle sorelle (all’epoca fratelli) Wachowski, Matrix, è sicuramente emblematica per il discorso che stiamo affrontando.
Matrix stesso è un viaggio tra sogno e realtà, ma in chiave virtuale. Ciò che propone Matrix è, a detta dei suoi personaggi, il mondo reale, andando oltre quella che Morpheus stesso definisce “l’immagine residua di sé”.
Le Wachowski in questo senso devono molto a Platone, perché Matrix rappresenta perfettamente il mito della caverna, rappresentato però in un contesto fantascientifico. Realtà e apparenza in Matrix si sdoppiano. Il “tutto è possibile” di Neo è applicabile per entrambi i mondi, e Matrix stesso è un mondo che va liberato dal potere e dalla manipolazione.
Memento
Christopher Nolan, 2000
Memento è il film ha iniziato a far conoscere il regista Christopher Nolan al grande pubblico, sorprendendolo con un film non lineare, esattamente come lo è il suo montaggio. Il film inizia dalla scene finale, alternata successivamente con la prima e così via, mescolando fine e inizio, ricreando lo stesso stato di amnesia nello stesso spettatore.
Il gioco di realtà e apparenza è molto marcato in questo film. Il protagonista, Leonard Shelby (Guy Pearce), affetto da un’amnesia anterograda cerca disperatamente di ricostruire l’omicidio di sua moglie. Non potendo ricordare informazioni nuove per più di quindici minuti, Leonard fa del suo corpo un taccuino di ricordi, tatuandosi ogni singola informazione importante.
Leonard vive in un vero e proprio limbo, dove i ricordi si mescolano con elementi di finzione. La realtà oggettiva è quella a cui vuole credere Leonard per poter scappare da un’evidenza dei fatti realmente sconvolgente.
Nolan, in questo modo, mette in scena un ventaglio di tematiche care al cinema: il sottile confine tra realtà e immaginazione, il senso della propria identità e quello della linearità del tempo, ma anche la vendetta. Il tutto assemblato in una pellicola senza paragoni.
Big Fish
Tim Burton, 2003
E sempre parlando di realtà e apparenza, sarebbe impossibile non citare l’amato regista visionario di favole gotiche Tim Burton. Nel mondo di Burton la realtà e l’apparenza si mescolano tra di loro, generando mondi fantastici, dove spesso sono proprio i reietti, coloro a essere stati dimenticati dalla società, a uscirne vittoriosi.
Big Fish, tratto dall’omonimo romanzo di Daniel Wallace, è tra i film più incredibili di questo magistrale autore cinematografico, sicuramente tra gli ultimi veramente riusciti. La relazione padre e figlio di Edward e William Bloom ha molto da spartire con La Famiglia Fang.
In entrambi i film lo scambio generazionale, il dibattito, l’incapacità dei figli di vedere oltre il proprio naso è fonte di scontri con genitori che, a modo loro, hanno saputo rendere la propria esistenza speciale.
Cosa importa se le avventure di Edward sono realmente state così fantastiche e fantasiose? È il modo in cui narra quelle storie, quei personaggi, a rendere tutto reale, andando oltre il senso di apparenza da cui William non riesce a distaccarsi, se non nell’ultimo momento dell’esistenza del padre. Solo in quel momento William comprende quanto di reale ci sia nell’immaginazione di quel vecchio pazzo di Edward, e solo in quel momento la realtà acquista una visione totalmente diversa.
Vi è mai capitato di sentire una barzelletta così tante volte da dimenticare perché è divertente? E poi la sentite di nuovo e improvvisamente è nuova. E vi ricordate perché vi era piaciuta tanto la prima volta… A furia di raccontare le sue storie, un uomo diventa quelle storie. Esse continuano a vivere dopo di lui, e così egli diventa immortale.
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Questi solo alcuni degli esempi di realtà e apparenza all’interno dell’universo cinematografico. Un binomio affascinante che, come si può vedere da questi titoli, è da sempre stato interpretato in modi differenti.
Riuscirà La Famiglia Fang a sorprenderci e lasciarci in bilico tra realtà e apparenza proprio come questi predecessori? Lo scopriremo al cinema dal 1 Settembre!
Tra realtà e apparenza: da Blow Up a La Famiglia Fang è stato pubblicato per la prima volta su Lega Nerd. L’utilizzo dei testi contenuti su Lega Nerd è soggetto alla licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License. Altri articoli dello stesso autore: Gabriella Giliberti