A venticinque anni dalla presentazione di Pulp Fiction sulla Croisette, vincitore anche della Palma D’Oro, Quentin Tarantino torna al Festival di Cannes con il suo nono film, una vera e propria lettera d’amore ad un certo tipo di cinema, al mondo cinematografico e al desiderio di rendere onore ad un sogno nel cassetto, Once Upon A Time In Hollywood.
Me la sono presa comoda, lo riconosco, ma questa volta Mr. Quentin Tarantino, nell’ottavo giorno di Festival interamente dedicato a lui, ha dato non poco filo da torcere. Si, perché Once Upon A Time in Hollywood nella sua apparente semplicità è, invece, un’opera complessa e ricca di sfumature. Una pellicola che parte da una storia, anzi… parte dalla storia, ma poi si rimette in duplici realtà, raccontandoci sullo scenario degli anni ’60 la magia di un cinema, di un mondo, di un sistema tanto brillante quanto marcio.
Once Upon A Time In Hollywood non è probabilmente il film che vi aspettavate di vedere, ma questo non va necessariamente inteso in forma negativa; anzi, forse è anche meglio così. L’ho definito un’opera complessa perché nella sua struttura goliardica e sarcastica, a tratti perfino cinica, ad altri comica, la pellicola di Tarantino sembra essere una lettera al giovane cineasta che nel 1992 debuttava sul grande schermo come regista con il film Le Iene, mostrando immediatamente al mondo del cinema che nella grande Hollywood un nuovo scomodissimo e necessario artista era ormai arrivato.
Negli anni Tarantino ha affinato la sua tecnica. Il suo cinema si è riempito di personaggi assurdi, iconici. Di immagini cariche di dettagli e di rimandi. Storie che attingevano direttamente dalla scuola italiana dello spaghetti story, arricchite ovviamente delle ossessioni, dei feticismi del regista americano cresciuto a pane e pellicola. Un cinema che abbiamo definito pulp, che camaleontico si è vestito delle storie più articolate, dal revenge movie all’action, passando per il western e lo storico. Un cinema che sorprende, pellicola dopo pellicola, impreziosendosi ovviamente dell’estro del suo stesso autore.
E sotto questo punto di vista Once Upon A Time In Hollywood sembra essere proprio una di quelle storie delle origini. Quel progetto folle che ti viene in mente quando sei tanto affamato quanto inesperto.
Quando si vuole fare il cinema parlando del cinema stesso, dell’inferno che è la sua industria. Del senso di inadeguatezza o gestione del successo. Sognatori folli disposti a tutto per l’amore del cinema, ma che alle loro spalle non hanno l’appoggio necessario per poter realizzare quelle piccole follie. Adesso Tarantino di follie se ne potrebbe permettere veramente tante, e le produzioni potrebbero quasi “prendersi” a capelli per poter essere tra i suoi produttori, non a caso lo stesso Cannes ha aspettato fino all’ultimo momento che il montaggio del film venisse completato, prendendo il rischio di presentare nel concorso di questa 72esima edizione una pellicola incompleta. E questo film è esattamente una riflessione su questo mondo. Riflessione forse fin troppo esasperata, che chiede allo spettatore un bel po’ di fiducia nel suo sviluppo iniziale. Appesantito forse da un montaggio non del tutto definitivo. Sequenze particolarmente silenziose e con pochi dialoghi, dove a parlare sono soprattutto le atmosfere, i volti dei personaggi.
Una prima parte fin troppo citazionistica che rimane incagliata in quella che sembra essere la storia di un regista alle prime armi. Storia che non spiega neanche troppo bene dove, alla fine della giostra, voglia davvero andare a parere, partendo e sfruttando diversi escamotage ma che, appunto, alla fine non sono altro che uno sfondo, un contesto che viene articolato e portato avanti da più personaggi, inspiegabilmente legati da un fil rouge di imprevedibili eventi e conseguenze.
Nonostante questo, però, Once Upon A Time In Hollywood nel suo andare avanti, prendere forma e sostanza, sboccia davanti agli occhi dello spettatore, mostrandosi per l’opera complessa che è davvero. Un finissimo lavoro fatto sulla caratterizzazione dei personaggi e sulle loro interpretazioni, dove Brad Pitt e Leonardo Di Caprio fanno quasi a gara a chi sia più mostro di bravura. Si viene del tutto trascinati nel loro mondo, in un cinema che forse non è neanche esistito veramente, ma che strizza notevolmente l’occhio alla bellezza della Hollywood degli anni ’60/’70. Una Hollywood ricca di sogni e di promesse, ma anche piena di insidie, dove spesso il successo non è sinonimo di felicità. Ed ecco che parte una grande digressione sul ruolo dell’attore, dell’interprete. Sul suo mettersi costantemente a nudo e a confronto con il giudizio, con il volere e sguardo del pubblico. Un lavoro tanto appagante quanto distruttivo che, come nel caso di Rick Dalton, succhia un po’ di anima giorno dopo giorno, set dopo set.
Once Upon A Time In Hollywood diventa quindi una parabola sul cinema, sul cinema di Tarantino, sul ruolo del cinema per Tarantino ma anche su come il cinema sia cambiato negli anni. Su cosa sia davvero il cinema.
Senza se e senza ma, la pellicola più imperfetta rispetto agli ultimi Bastardi Senza Gloria, Django e The Hateful 8; forse, addirittura la pellicola più debole dell’intera cinematografia di Tarantino, eppure quella più intima, quella più profonda, quella che più di tutte diventa la portatrice di questi quasi trent’anni di cinema, di stili, di storie, di sogni e paura.
Un film che riscrivere la storia e fa la storia. Un film che si muove sulle strutture classiche del cinema di Tarantino, usando gli scenari, i modelli, il pulp. Stupendo con sequenze che sono dei veri e propri colpi di genio. Giocando con le parole. Divertendo ed interagendo lo spettatore, dandogli anche la giusta ed agognata dose di sangue e brutalità ma senza fargli mai spegnere davvero il cervello.
Incantevole il lavoro fatto sugli arrangiamenti e il tappeto sonoro, che diventa un tutt’uno con la scena; così come la collaborazione con attori feticcio di ieri e di oggi, che si fondono e si confrontano con situazioni già conosciute eppure adattate in chiave diversa.
Once Upon A Time In Hollywood non è un film semplice. E non è semplice parlarne. È un film che forse in sé ha, paradossalmente, troppo entusiasmo. Un film imperfetto e che forse viene anche svantaggio dalla fretta e dalla voglia di tornare in quel di Cannes durante un anniversario così importante. Una pellicola che andrà vista una, due, addirittura tre volte, prima di essere sicuri di averne colto del tutto l’essenza. Ed è proprio l’essenza il cavallo di battaglia di questa pellicola che, nella sua “debolezza”, sa essere una storia dall’immensa forza, coinvolgimento e passione.
Un necessario confronto di Tarantino con il suo mondo. Un confronto per lo spettatore con il cinema di Tarantino. Una favola noir, sporca e cattiva ma dal cuore buono, puro e un po’ sciocco. Un brutto anatroccolo dalle sfumature del cult che, di visione in visione, potrà sorprendere ancora di più.
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